Pubblico, mass media e poesia

Strano e doloroso il destino della poesia oggi. Dopo essere stata per millenni la voce principe dell’anima dei popoli ha ceduto il campo a prodotti dell’industria culturale: cinema, serial televisivi, best sellers, canzoni d’autore, spesso ben poco originali e di valore.

Nel mio sconsolato zapping serale mi chiedo come possa il pubblico non essere infastidito da tanta monotonia e ovvietà. Poi mi rassegno alla conclusione che probabilmente il pubblico dei mass media preferisce essere riconfermato su assunti che già possiede piuttosto che costretto a ridiscutere le coordinate della sua mente. Che è quanto l’opera d’arte fa: ricrea il mondo in modo nuovo, rimette in questione la realtà, non contesta il singolo particolare ma mette e si mette completamente in discussione. E’ un’operazione che costa a chi la compie ma anche a chi ne fruisce, perché è costretto a confrontarsi con le sue (più o meno personali) persuasioni, con gli schemi entro cui gestisce la sua vita e che gli consentono una certa stabilità, un certo equilibrio. E allora opta per la serenità, anche se questa molto spesso significa scarso spessore d’anima. Qualche volta anche imbecillità allo stato puro. 

Dice Giancarlo Pontiggia: “Il mondo contemporaneo è certamente il più inadatto dei mondi possibili per la poesia, poiché è il mondo della chiacchiera, del frastuono, dello svilimento incalzante del senso…” Dopo gli entusiasmi de “La parola innamorata”, antologia-manifesto della fine degli anni settanta, di cui egli, assieme a Enzo Di Mauro era stato il curatore, Pontiggia aveva ben avvertito le insidie che si potevano nascondere in un dilettantismo di maniera. E aveva definite “splendide foglie impazzite” i versi colmi di immagini e di metafore di alcuni poeti (anche famosi) carenti di un impianto ideologico (in senso lato) e inclini a un preziosismo eccessivo. Da cui il suo richiamo alla verità semplice, alla “lenta, misurata, paziente, geografia dei classici” addirittura al “silenzio”. Poesia non è stordirsi di parole ma sentire nel silenzio, è “una verticale del silenzio che si impone improvvisamente e diventa parola.” Poesia non è muoversi con patetica tensione nel quadrato di millimetri, ma attaccare alla grande la realtà, ridescriverla, rideterminarla. Pontiggia critica giustamente che il pubblico dei poeti sia costituito solo da poeti, che la poesia sia diventata una disciplina specialistica, che i simplices non leggano più versi. 

Alcuni potranno controbattere che in fondo anche in passato alla grande letteratura accedevano solo delle minoranze esigue. Questo è vero, ma solo in parte. Penso al mondo greco e alla partecipazione degli strati sociali più diversi come pubblico dell’epica, della lirica, del teatro. E nella società comunale (d’accordo, è un esempio estremo) i versi della Divina Commedia erano conosciuti presso un pubblico estremamente vasto. Un pubblico certamente non capace di comprendere le valenze retoriche, linguistiche e filosofiche dell’opera, ma che pure, sebbene a un livello estremamente superficiale, la comprendeva, ne traeva insegnamento, vi si riconosceva.

Quello che molti poeti scrivono oggi non è fruibile, neppure a livello superficiale, dal grande pubblico. E’ una lettura per iniziati (e qualche volta neppure per loro). L’operazione di decostruzione del linguaggio spinta agli estremi da retori abilissimi ma moralmente e intellettualmente carenti non dà emozione né illuminazioni. Esprime solamente il vuoto, il disagio, la mancanza di una propria personale (arrischiata, rischiosa) visione della vita. Una visione che sia individuale e universale, che esprima se stessi rischiando le proprie ossa ma che affermi anche valori in cui gli altri possano in qualche modo (di striscio, in modo problematico, per opposizione) riconoscersi. Molti poeti invece continuano imperterriti i loro giochi alessandrini facendo accoppiare le parole in coiti mostruosi e immaginifici , non preoccupandosi affatto che il pubblico non li legga . Del loro vissuto, della loro esperienza umana (come individui e come parte di una società) non giunge eco nei loro scritti. Non fanno poesia per un imprescindibile bisogno interiore. Eppure che senso ha scrivere poesia se non per un “imprescindibile bisogno interiore”? E non per riempire il proprio otium, non a caccia di onori (piuttosto ipotetici). Solo perché a non farlo si soffrirebbe di più. 

Sulla sponda opposta ci sono autori che intendono la poesia come mero sfogo dei propri umori, della propria sensibilità ferita, del proprio vissuto. Per lo più privi di uno spessore culturale e di grandi capacità retoriche ( la poesia è anche artificio!) scrivono versi che non interessano se non chi li ha prodotti. Na­scono sì dalla vita ma non è una vita depurata, osservata da lato, decantata, quale quella che può assurgere a valore universale . 

Da punti di vista diversi mi sembra che questi due atteggiamenti: un intellettualismo esasperato che si diletta di giochi bizantineggianti e un sentimentalismo privo di abilità tecnico-retoriche e di un retroterra culturale siano gli atteggiamenti più rovinosi nel variegato campo della poesia di oggi e abbiano contribuito non poco, per ragioni diverse, a disamorare e allontanare il pubblico. 

Ma il problema è indubbiamente più articolato e complesso. E’ cosa ben nota che negli ultimi decenni i mass media hanno esercitato sull’uomo comune un influsso via via sempre più potente. L’arte non può non tenerne conto perché con essi (contro di essi ?) si deve confrontare. I mass media che offrono prodotti facili, costruiti per palati grossolani. I mass media che quotidianamente ci abituano alla volgarità del generico e dell’approssimativo. I mass media che ammansiscono ragazze sgambettanti, informazioni banali e cultura a quantità omeopatiche. Sono nemici temibili che non si possono ignorare, con cui bisogna fare i conti. 

Credo però che, per la vitalità dell’arte, sia un imperativo irrinunciabile riconquistare un pubblico più vasto. E per realizzare questo scopo sarebbe opportuno innanzi tutto ricominciare a dire cose che anche l’uomo comune sente ma che non ha la capacità di esprimere e talvolta neppure di focalizzare. Fare insomma quella che Saba definiva “la poesia onesta”. 

E poi, visto che i nostri tempi sono, sotto questo profilo, più duri di quelli in cui Saba è vissuto, lottare, centimetro su centimetro, con pazienza, mettendo in preventivo anche sconfitte e delusioni, cercando di riconquistare parte di un pubblico che adesso si riconosce nelle banalità dei prodotti stereotipati. Lottare per tentare di ridurre il divario che si è andato negli ultimi decenni sempre più evidenziando tra pubblico e arte. Lottare anche se sappiamo bene che i mass media hanno una grandissima forza di penetrazione e di suggestione. Vivere sulle barricate. Credo sia la migliore strada che, nella situazione attuale, possiamo percorrere.

Marina Tevini

Pubblicato sulla rivista ZETA NEWS n.31 – 32

– Sito personale di Marina Torossi Tevini –

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